INEFFICACI ANTIDOTI DI PRIMAVERA
Come non sfuggire all’imperativo del weekend e alle baciosità stagionali
Una delle quattrocento volte in cui ci siamo lasciati, una delle quattrocento volte in cui tu hai fatto mezza telefonata presumibilmente riconciliatoria alla quale io non ho risposto e ti sei ben guardato del farne una seconda (mezza seconda) perché già ti parevano troppo sforzo quei tre squilli, una delle quattrocento volte che abbiamo smesso di frequentarci così, come niente, come fossimo due ottenni che fanno amicizia in spiaggia e poi si perdono di vista col ritorno a scuola, una delle volte che in cui tu te ne sei come al solito fregato, io sono andata come al solito a fare shopping per consolarmi.
Siccome era un anno davvero disgraziato Miuccia Prada aveva fatto i tacchi a cono e nessuno aveva fatto dei pantaloni che mi facessero sembrare Katharine Hepburn (esistono, sono pantaloni magici tagliati con forbici immerse in acqua santa, esistono lo giuro li possiedo – e non ne rivelerò la marca neppure a te, che poi capisci che io non sono davvero quella strafiga che spegne la luce prima di slacciare la lampo), siccome non sapevo come dissipare danaro e consolarmi della mia infelicità, allora comprai un cellulare. Siccome non so perché ma pare che – come l’hamburger con le patatine o Tom con Jerry – non sia dato di avere solo la metà utile del pacchetto (Tom, le patatine), insieme al cellulare mi diedero una nuova scheda col suo bravo nuovo numero. Ovviamente non resistetti neppure dodici ore e quella sera, sentendomi un genio della strategia sentimentale, ti mandai un messaggio. Nella mia sceneggiatura, tu ti saresti molto incuriosito, per buona educazione non avresti potuto chiedere chi diavolo fossi però, siccome il messaggio sarebbe stato inequivocabilmente femminesco, non avresti resistito alla tentazione di flirtare, saremmo andati avanti per settimane, il mistero si sarebbe fatto sempre più misterioso, una conclusione ancora non me l’ero raffigurata ma supponevo che fosse plausibile che, esattamente come Tom Hanks, tu arrivassi sulla collinetta con il cane e “Over the rainbow” in sottofondo (un coming out?), e allora io come Meg Ryan ti avrei detto che avevo sempre sperato fossi tu, e poi avremmo vissuto felici e contenti prendendo molti frappuccini, pazienza se intanto tu mi avevi costretta a chiudere la libreria con la tua globalizzazione del cazzo, tanto cosa conta l’antica libreria di famiglia quando si ha un marito miliardario? Nella mia sceneggiatura andava più o meno così, quindi ho riflettuto cinque secondi e ho deciso di agire sul tuo inconscio, contando sul fatto che avessi dimenticato di avermi raccontato (dieci secondi dopo avermi incontrata per la prima volta, prima ancora di dirmi che le mie scarpe ti facevano schifo e i miei gusti musicali pure) che la tua tattica per vincere le resistenze di signorine conosciute da poco era, subito dopo esserti congedato, inviare un sms: “Già mi manchi”. Sostenevi che il “mi manchi” facesse squagliare le femmine. Io sostenevo fossi uno stronzo. Entrambi, a distanza di anni, sosteniamo ancora le stesse cose. Comunque, ti mando questo benedetto “mi manchi”, in modo che tu sia certo di conoscermi ma non della mia identità (a quante mancavi? e soprattutto: perché? voglio dire, io son malata di mente, ma una normale, una che abbia avuto un’infanzia mediamente infelice, perché dovrebbe sentire la tua mancanza? e, soprattutto: dove le incontri, tutte queste stronze cui poi manchi, che a me dici sempre che hai tanto da lavorare e neppure il tempo di pranzare mangerò un tramezzino qua sotto magari ci si sente più tardi – frequentano tutte il bar lì sotto? spalmano professionalmente di maionese i tramezzini uovo e salame e si offrono di fare lo stesso coi tuoi mollicci pettorali? e i tramezzini, poi, li mangiano o sono di quelle perennemente a dieta che ti forniscono pretesto per antipatici paragoni e per dire al cameriere ogni volta che ceniamo insieme“per lei due di tutto”?). Tu mi rispondi poco dopo, con un messaggio fintointerlocutorio e finto-divertito, “devi essere una delle molte ammiratrici occasionali”, andiamo avanti un po’ così, io cerco di essere ambigua (che mi riesce malissimo), tu cerchi di essere feroce (che ti riesce benissimo), butti lì nomi tipo “consuelo”, “demetria” e altre improbabilità. A un certo punto ti viene sonno, o comunque il gioco ti stufa, perché lo concludi d’ufficio con un messaggio che stronca ogni velleità di risposta. “Comunque era ‘già mi manchi’. Uff, sei sempre imprecisa”. E’ stato allora che mi sono innamorata di te.
* * *
La stagione dei fine settimana è cominciata e sembra che non ci si possa proprio sottrarre. L’imbarco dell’aliscafo per Ischia non somiglia per niente a quello del pullman per gli Hampton, di fronte a me ci sono due adolescenti maschi orrendi come può esserlo solo un adolescente maschio,con scarpe too-logo, brufoli d’ordinanza, tinture sbagliate e uno dei due persino una maglietta che dovrebbe essere spiritosa, c’è il disegno di quattro
piedi incrociati e la scritta “sex instructor, 1st lesson free”, ed è chiaro che quello lì è credibile come sex instructor quanto io lo sono nei panni di maestro zen. Comunque, nei venti minuti in cui l’aliscafo ritarda l’attracco, i due sembrano due animali in stato di riproduzione ripresi dalle telecamere del National Geographic: si graffiano, si pizzicano, si mordono, si mettono le mani addosso in una simulazione di lotta che ha tutte le caratteristiche di una non-simulazione di petting,in flussi noti solo a loro si calmano e poi ricominciano sempre, di comune accordo chiedono tregue che altrettanto di comune accordo non rispettano, si lasciano segni che poi si mostrano vicendevolmente un po’ orgogliosi e un po’ vezzosi, rispondendo a comandi che devono essere ultrasuoni che colgono solo i ricettori della loro fascia d’età perché non li percepisco io ma neanche il pupo biondo che avrà quattr’anni e che continua a giocar nella sedia a fianco alla loro
proprio come niente fosse. Mentre si avvinghiano in morsi, graffi, dolore, piacere, rabbia, divertimento, io tiro fuori il biglietto dell’aliscafo e scarabocchio in un angolo: più avanti negli anni, come li sfoghiamo, tutti quegli ormoni? Dev’essere per questo che mi sono innamorata di te.
***
Dev’essere la primavera. Si innamorano tutti, in una misura che trascende persino i miei cliché. Madri mollano la famiglia per quasi-sconosciuti, scapoli fino a un quarto d’ora fa anaffettivi scrivono alla nuova venuta proposte di matrimonio con cuoricini sulle “i”, e tutti, a ogni angolo di strada, si baciano con una vischiosità francamente irritante. Dev’essere la primavera, io ho comprato sei sedie di velluto davvero impegnative, tu le hai guardate un po’ preoccupato, poi,
dopo qualche ora, hai metabolizzato e hai cominciato a irridere la prospettiva di una cena a sei, io ho provato a dirti che non capivo cosa ci fosse da ridere, poi mi sono ricordata che non conosco sei persone, o almeno non così bene da invitarle a cena, o almeno non sei che, a uno stesso tavolo, non finiscano quasi certamente per scannarsi. Dev’essere la primavera: in India una si doveva sposare ma le hanno detto che stava incubando la Sars; lei ha detto “col cazzo che rimando”, o qualcosa del genere, temendo a ragione che passata l’ondata ormonale di stagione lo sposo si tirasse indietro; le hanno detto che gli ospiti, poverini, dopo avrebbero dovuto essere chiusi in quarantena ma lei non si è scomposta, si è sposata con la sua brava mascherina, e gli ospiti che non hanno rinunciato sono stati quarantenati. Dev’essere la primavera, e mentre te lo raccontavo c’era quella canzone di Carmen Consoli in cui lui, “sguardo - intenso e diretto e dita curate e un sarcasmo congenito”, le domanda di sposarlo con “pochi preamboli”, arriva il gran giorno e “l’abito bianco di seta ed’organza, nessuno sposo impaziente all’altare, soltanto un prete in vistoso imbarazzo”. Dev’essere la primavera, e io non so come fare a essere all’altezza delle mie nuove sedie davvero impegnative o della baciosità agli angoli di strada, rischio di non riuscire a riempirle tutt’e sei o – peggio – di ritrovarmi con degli ospiti che si baciano fra di loro escludendomi. Dev’essere la primavera, quella della mia vita oltre che quella di stagione, e l’altro giorno ragionavo che non ho mai ricevuto una proposta di matrimonio e insomma non so neppure che cosa si prova, che faccia si fa, se veramente ci sia gente in ginocchio con l’anello e tutto l’ambaradan previsto dal codice incivile del romanticismo. Tu mi hai guardato con feroce tenerezza e hai detto: “Hai un progetto. E’ chiaro. Evidente. Hai sei sedie, ora ti manca solo un marito. Piccoletta, mica mi vorrai incastrare?”. Io ho detto che no, volevo solo sapere l’effetto che fa, e non è che potevamo per piacere fare come Meryl Streep e Robert Redford in “La mia Africa”, quando lei gli dice che vorrebbe solo che qualcuno un giorno le chiedesse di sposarlo e se gli prometteva
di dire di no lui poteva per favore chiederglielo, ecco io ti avrei detto di no, ma tu potevi, per favore… Tu mi hai guardata negli occhi più a lungo della norma, hai cercato qualcosa che non trovavi, io ho sbattuto più volte le ciglia per vedere se riuscivo a farlo
affiorare ma non dev’essere servito perché tu hai sorriso e hai detto: “Non mi fido”. E io allora mi sono innamorata di te.
* * *
Eva non mi crede mai. Non mi credeva quando ho dichiarato che avrei comprato sei sedie né quando le ho annunciato che sarei andata a Ischia senza di te. Ha detto: “Figuriamoci. Non sei in grado”. Sarai d’accordo con me che era chiaramente una sfida, quindi sono dovuta andare, nonostante non ne avessi nessuna voglia. Eva non mi crede mai, quindi quando l’ho fatta sedere, appoggiare allo schienale e l’ho messa al corrente del fatto che quella sera sarei uscita con un uomo, un uomo che non eri tu, mi ha guardata da sotto in su come a dire “so benissimo che è uno scherzo, mi hai presa per cretina?”. Ho dovuto faticare a convincerla, il che se permetti è surreale, una è lì debole e bisognosa di consigli seduttivi ed è costretta a perder tempo ed energie per convincere la renitente consigliera che ne ha bisogno davvero. Comunque alla fine ci siamo piazzate davanti al mio armadio e abbiamo scelto. Non è quello era già qui sottoper non sentirmi sola/ ho avuto un altro uomo/ ma però ti aspetto ancora”), stavo per dirglielo, mi stavo solo chiedendo se magari concedergli un aperitivo di tempo e poi accampare la sempre valida emicrania, poi lui mi ha guardato le scarpe, ha aggrottato in un modo strano la fronte, si è capito benissimo che non gli veniva una battuta, ha detto “Ehi… ma che scarpe!” Non è stato difficile, dato che il novero si restringeva alle cose a cui non saltano i bottoni se tento di infilarle e come dici sempre tu un giorno dovrò decidermi ad accettare il fatto che la mia gemella magra è defunta e non risorgerà come un personaggio di “Beautiful” e a togliere i suoi vestiti dall’armadio. Abbiamo scelto dei pantaloni bianchi, che fanno tanto cugina incinta di Jackie Kennedy, una maglietta nera, che fa tanto cugina con problemi di tiroide di Kate Moss, e i miei sandali gialli di Miu Miu, quelli coi fiori viola e verdi che ho comprato ormai da un mese e che non ho ancora mai messo perché già sento tutte le battute che faresti e lo sguardo implacabile con cui mi spediresti a mettermi un paio di Superga. Ho investito tredici euro di messinpiega dal parrucchiere qua sotto, perché non avevo ancora deciso se il tizio mi piaceva davvero e insomma l’incognita non valeva una piega di Roberto D’Antonio. Ho fatto la ceretta, ma solo all’inguine, con gran scandalo della mia estetista che pensava scherzassi quando le ho detto che ai polpacci avrei provveduto col rasoio. Ho chiesto a Eva se fosse il caso di indossare il mio nuovo cappello, che mi piace da impazzire ma certo mi rendo conto che forse è un po’ troppo, sandali coi fiori e cappello a tesa larga richiedono più portamento ritto sicurezza sociale e fianchi stretti di quanti io ne possa mai avere anche fra dieci vite e altrettante drastiche rieducazioni.
Eva l’ha guardato, secondo me ha pensato che se mi avesse vista aggirarmi per i vicoli di Roma con quel cappello avrebbe chiamato i vigili urbani, ma siccome è una ragazza educata si è limitata a dire che era “molto carino ma effettivamente non da città”, io le ho detto che infatti era quello che mi ero portata a Ischia, e lei ha sorriso comprensiva: “Hai messo il suo cappello per non sentirti sola”.
A quel punto stavo per disdire l’appuntamento ma ormai quello era già qui sotto, sono scesa col mio sorriso da ragazza educata e lui aveva un sorriso da ragazzo altrettanto educato, non sapevo come fare a dirgli che non ce la facevo, avevo appena capito di non potercela fare, l’avevo capito in ascensore, mentre canticchiavo nervosamente il seguito di quel De Gregori inopportunamente e parzialmente citato da Eva (che, per te che hai
sprecato la tua giovinezza sui Led Zeppelin, è: “Ho messo il tuo cappello per non sentirmi sola/ho avuto un altro uomo ma però ti aspetto ancora”) stavo per dirglielo, mi stavo solo chiedendo se concedergli ancora un aperitivo di tempo e poi accampare la sempre valida emicrania, poi lui mi ha guardato le scarpe, ha aggrottato in un modo strano la fronte, si è capito benissimo che non gli veniva una battuta, ha detto: “Ehi…ma che scarpe!”e io allora ho avuto la certezza di essere innamorata di te.
***
A Ischia facevo dentro e fuori dalle pozze come una cretina per rispondere a telefonate che non erano mai le tue. Quando finalmente mi ero rassegnata ad ascoltare i discorsi da posta del cuore che le donne evidentemente tendono a fare allorché a mollo in liquidi tiepidi (roba tipo “io sono sempre
stata con uomini più vecchi e alla fine mi sono resa conto che in questo modo loro non crescono mai” “comunque venti-quaranta non è come trenta-cinquanta”), tu ti sei deciso a chiamare permettendomi finalmente di comunicarti con studiata disinvoltura che ero partita senza di te. Ti ho
detto che ero a Ischia, e tu hai detto: “Ma per lavoro o per piacere?” – in un tono assolutamente piatto, in cui neppure il mio implacabile ottimismo riusciva a scorgere tracce di gelosia. Ho detto “per piacere” e tu hai sogghignato che andare in vacanza a Ischia è un passo che in genere si fa dopo i sessanta, ma d’altra parte la mia recente intolleranza per i bambini e il mio sfogliare freneticamente riviste d’arredamento ti avevano già fatto sospettare una precoce menopausa. Stavo cominciando a innervosirmi, e tu continuavi a non chiedermi con chi fossi partita, impedendomi di sciorinarti le fantasiose descrizioni di pericolosi rivali che avevo accuratamente preparato, quindi ho chiuso frettolosamente la telefonata e sono tornata a immergermi in quell’acqua grigiastra. Qualcuno ha suggerito di provare la grotta claustrofobica, quella dove non si tocca e ci si sta massimo in due, e l’ideale è andarci con un uomo che così è costretto ad avvinghiartisi addosso, e a quel punto una tizia ha detto che ei col fidanzato non ci sarebbe andata, perché non voleva che lui le si avvinghiasse per una squallida questione di sopravvivenza: “Io voglio un uomo che si avvinghi a me perché vuole morire, non perché vuole vivere”. Se c’è una cosa che mi deprime è il romanticismo altrui, quindi sono uscita e mi sono accorta che non mi ero portata un asciugamano e cazzo proprio in quel momento doveva cominciare a rinfrescare. Ho preso in mano il telefono, segnalava un messaggio, il messaggio era tuo e diceva “Cosa fate stasera? Torneo di bocce?” e allora mi sono rassegnata al fatto che sono innamorata di te.
* * *
Il giorno dopo l’acquisto del telefono misterioso, subito dopo essere finiti a letto senza che tu avessi chiesto scusa o pagato pegno corrispondente all’importo del telefono all’uopo acquistato, ti ho chiesto esattamente dopo quanti messaggi avessi capito che la donna del mistero ero io. Tu mi hai
guardata alzando le sopracciglia che ci mancava poco che dicessi “ragazzina per chi mi hai preso”, poi le hai abbassate, hai optato per un tono non infierente e hai detto: “Lo sapevo dall’inizio. Solo tu unisci a un citazionismo patologico un’altrettanto patologica approssimazione”. Tutto sommato dev’essere stato allora, che mi sono innamorata di te.
* * *
Il pomeriggio in cui mi preparavo a uscire con quell’altro, mentre mi facevo acconciare i capelli dal parrucchiere economico, sfogliavo un numero di Chi vecchio com’è giusto che sia nei saloni in cui la piega costa poco. C’era un servizio sul matrimonio di Russell Crowe, una cosa imbarazzante,
gli sposi fotografati con Armani, che dimmi un po’ a cosa serve essere un premio Oscar milionario in dollari se poi non ti puoi permettere di comprare i vestiti per il tuo matrimonio
senza esser costretto a smarchettare con gli stilisti, la cosa più imbarazzante per la verità erano i capelli di lui, tutti impomatati e tirati indietro, non aveva più nulla del buon selvaggio che sedusse la vera Meg Ryan e tutte noi sue emule, ma poi c’era anche un’intervista che mi sono messa a leggere un po’ scettica ma è come quando guardi i programmi della De Filippi: cominci un po’ scettica raccontandoti che lo fai solo per lavoro e per capire il pubblico medio come si faccia infinocchiare e finisci rapita, senza più uno straccio di distacco critico.
Insomma mi metto lì a leggere questa benedetta intervista in cui lui spiegava che sì Danielle era la sua prima fidanzata, e sì lui l’aveva riempita di corna più o meno pubbliche, e sì lei era rimasta in Australia mentre lui faceva fortuna a Hollywood, e sì però lei sapeva che nel fondo del cuore lui era ancora il caro vecchio buon aborigeno di sempre e che alla fine moglie e canguri dei paesi tuoi e quindi lui si era fatto infine commuovere da tanta dedizione, si era reso conto che lei lo aspettava da quattordici anni, le aveva telefonato dicendo “sto tornando”, lei gli aveva chiesto se tornava per le
vacanze o tornava per sposarla e lui le aveva detto che gliel’avrebbe detto in aeroporto, di venirlo a prendere all’arrivo ed erano finiti così, coi capelli impomatati, i paggetti biondi e i vestiti di Armani. Avevo cominciato a singhiozzare, ti avevo telefonato per raccontartelo, tu continuavi a dire
“Calmati, non capisco quel che stai dicendo”, allora, fra un singhiozzo e l’altro, ti ho sintetizzato vita e misfatti di Russell&Danielle, tu hai obiettato “Piccoletta, vuoi che ti sposi anch’io perché mosso a compassione? Ma tu non mi stai aspettando da quattordici anni…”, e allora io mi sono asciugata gli occhi e ho pensato che quella sera potevo anche uscire con quell’altro, tanto fra nove anni sarò ancora innamorata di te.
* * *
Sull’aliscafo da Ischia i bambini strillavano e sbrodolavano bibite gassate, e io sempre più zitellescamente sibilavo rivolta ai genitori “se non sapete educare i vostri figli teneteli a casa,
teneteli”. All’arrivo mancavano due ore al mio treno, tutti gli altri se ne stavano in qualche comoda macchina con aria condizionata su qualche affollato traghetto, così io, il mio cappello atto a non farmi sentir sola e i sandali che tu non mi avresti mai lasciato indossare in tua presenza ce ne siamo andati a prendere un aperitivo al Vesuvio. Si sa come va con gli aperitivi, a un certo punto non so più se ero al terzo americano (bittercampari + vermouthrosso) o al secondo cosmopolitan (vodka + cointreau + lime + succodimirtillo), di certo so solo che avevo cenato con le mandorle, roba da Holly Golightly se solo le mandorle non avessero tutte quelle calorie e lei non fosse una perfetta trentotto. La consapevolezza delle mandorle finite mi ha scossa, e io il cappello e i sandali ce ne siamo andati nel lussuoso bagno di quel cinque stelle o quante sono preposto a ospitare solo donne
botulinate, altrimenti non si spiegano quelle impietose luci che svelavano la mia acne senile e ogni mancata applicazione di acido glicolico. Uscita dal bagno mi sono resa conto che il rischio di perdere il treno era oramai concreto, sono salita su un taxi e poi su un pendolino sul quale credo di essermi addormentata con la mascella cascata come le zie zitelle quando rientrano dopo aver fatto visita per il fine settimana a familiari che nel vederle ripartire non riescono a trattenere sospiri di sollievo. Fra Napoli e Roma avevi sempre il telefono spento, e all’arrivo non eri in fondo al binario
a farmi una sorpresa, così sono salita su un taxi da sola, sono arrivata a destinazione da sola, ho aperto la porta senza che tu cavallerescamente mi tenessi la borsa, sono entrata in camera da letto, la cameriera aveva sostituito il piumino con un copriletto di cotone e doveva essere la primavera, perché ho deciso di smettere di essere innamorata di te.
Guia Soncini
ANNO VIII NUMERO 127 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 10 MAGGIO 2003
Supplemento al numero odierno del Foglio Quotidiano - sped. abb Post - 45% - Art. 2 comma 20/B legge 662/96 fil. Milano
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